“Sole nero” di Mariarosaria Paesano

Sole Nero
di Mariarosaria Paesano

Ti guardo, Giocasta, e non ti riconosco. Tu, così fiera ed altèra. Scolpita nella tua bellezza senza pecche, perfetta, appagata e felice per il mondo e per te stessa fino a poche ore fa e ora improvvisamente svanita. Il bistro disciolto intorno agli occhi di brace e catrame forma pozze nere, listando a lutto il tuo volto. Sei esanime anzitempo, mi costringi al turbamento. Sebbene io non possa incresparmi lo farei, magari fossi d’acqua!, pur di sottrarmi all’orrore del vuoto che mi costringi a riflettere d’ora in avanti. Portami con te, che io rovini e m’infranga quando spegnerai la vita. Nessun’altra immagine mi attraversi, lascia che io appartenga a te sola ed immoli la mia immortalità di povera cosa alla fedeltà ben più ambita ai tuoi sguardi regali.

Nascesti regina, e non solo per stirpe, né per le nozze che ti toccarono in sorte. Non so se anche semidea, tuttavia c’era qualcosa in te che ti rendeva unica, ultraterrena. Tu rapivi, catturavi, ammaliavi. Avrei voluto udire il tuo primo vagito, nell’istante in cui il sole ti tenne a battesimo, sfiorarti con la più delicata delle carezze, raccogliere il tuo respiro originario, ma non ero ancora accanto a te. Non ho colto i tuoi primi passi né le tue prime parole. Nessuno può esserci sempre, lo so, tu sola non ti sei abbandonata mai.

Io sopraggiunsi finalmente e per puro caso quando mi scorgesti, deforme e crepato, in un cespuglio lungo il viottolo che dalla reggia portava al mare. Cogliesti una scintilla tra i rovi e la curiosità ti spinse verso di me. Ti feristi le mani con le spine per liberarmi, mi ripulisti dalla sabbia, raccogliesti le schegge ed esigesti che mi accomodassero per te. Appena si seppe, per te giunsero le più belle creazioni di bronzo e persino d’oro, con i manici istoriati e le cornici cesellate ed incrostate di perle e di pietre, ma tu rifiutasti ogni monile. Volesti solo me e pretendesti che mi ripristinassero com’ero, di fattura un po’ grezza e di forma semplice, “senza fronzoli” ammonisti, “perché mi restituisca sempre la sola verità che riconosco: scarna e senza temperanza”. Avevi 17 anni ed eri già inflessibile più di me. Da allora non mi hai più lasciato e stento a credere che tu voglia frantumare proprio ora l’incantesimo del nostro legame.

Sì, perché a ben pensarci il nostro incontro è stato forse un poco il marchio del tuo destino. Forse fu proprio quando mi hai visto e mi hai scelto che hai scoperto in te questo fervore quasi ossessivo verso la Verità, e con me è stato a lei che, più che a chiunque altro, ti sei congiunta. L’hai temuta, ammirata, evocata, affrontata, blandita e hai creduto di potertela fare amica. A lei hai ceduto la tua anima sperando di saziarla, e invece ora essa reclama anche il tuo corpo e la tua vita. So che non puoi tirarti indietro e che, come sempre hai fatto, pagherai il prezzo che ti viene imposto senza indugiare ma, se credessi negli dei, avrebbero parecchie cose da spiegarmi e, se fossi più di quel che sono, di cui rendermi conto. Ah, se non mi avessi trovato sul tuo cammino, quel giorno di così tanti anni fa, diverso sarebbe stato forse il tuo destino? A poterlo riavvolgere e riscrivere, rinuncerei volentieri a starti accanto pur di farti vivere di più e con meno dolore. Io, che ti ho vista sbocciare e fiorire, come posso accettare che oggi ti venga sottratto il tempo per appassire?

Guarda le belle rose che lui ti ha offerto stamattina. Rivedo ancora il tuo sguardo quando le ancelle te le hanno portate. Ce ne sono volute due, ché a stento quattro braccia potevano recarti quell’enorme sole di rose rosse. Nel mezzo spiccavano 25 rose bianche, una per ogni anno trascorso insieme, e 4 rose blu, per i figli che vi siete donati e che avete cresciuto alla luce del vostro amore solido e prodigioso. Sì, perché è stato proprio questo vostro amore che ti ha riportata indietro dal non luogo che avevi deciso di abitare.

Non basta essere regine per avere vita facile, anzi: alle regine non capita quasi mai. Quante volte ti ho vista mentre guardavi le tue giovani serve e bramavi i loro scherzi, la loro leggerezza, la vita lieve che invidiavi in loro e che a te il fato non concesse. Eppure non ti sentivi tanto diversa da loro: anche tu subivi comandi e dovevi ottemperare obblighi, uniformarti ad ordini che non potevi discutere, inchinarti a voleri più altisonanti dei tuoi, soffocare diritti cui ti era interdetto l’accesso. Anche tu, benché regina, reggevi il giogo del possesso. Avevi creduto nella spensieratezza dei giochi e dei piccoli capricci che ti erano accordati da bambina. Avevi goduto delle risa e delle margherite intrecciate nei capelli da fanciulla. E poi un giorno il tuo sorriso venne infranto di colpo, come la biga aveva fatto con me, e le tue fantasie finirono in pezzi.

Laio ti aveva chiesta in sposa e tu dovevi acconsentire. Ricordo le tue lacrime, rivedo le schegge di sogno che cercavi di cavarti dal cuore. Lui era molto più vecchio di te, grossolano nei modi e sommario nei gesti. Beone e giocatore, amava ingozzarsi a tavola ed altrove. Ti scelse per la tua bellezza senza pari e per procreare la sua stirpe, che tu sola avresti potuto rendere meno immonda. Non ti rivelò, però, che una stirpe gli era stata negata, forse proprio per circoscrivere a lui le sue laide nefandezze. Neanche te in sposa avrebbe dovuto chiedere, e men che meno avere progenie. L’oracolo era stato inequivocabile. Tuttavia lui decise di sfidare la profezia, per confutarla ma, più di tutto, per possedere te. La sua fetida irriverenza fece calare cupe ombre sulla tua giovinezza e t’inaridisti, povero fiore senza sole. A chi ti chiedeva se fossi infelice, rispondevi: “Sono al mio posto, sono cosa sua”. Per te il matrimonio era un ergastolo e vivevi senza più speranza di vivere. Non appartenevi, non partecipavi. Della tua esistenza lui arraffava quello che gli era dovuto, signore e padrone del tuo corpo e del tuo tempo, mentre tu rinunciavi ad esserci. Smorzavi la mente per resistere. Bandivi pensieri e desideri dai tuoi giorni e funzionavi senza coinvolgimento, come il più efficiente dei soldati. Credevi di vivere la morte e non conoscevi ancora il peggio, che non tardò a presentarsi.

Nonostante il tuo disgusto per le vostre unioni carnali, concepisti un figlio. Sorpresa dalla potenza della Natura, che segue il suo corso incurante delle condizioni umane più disagevoli, accogliesti l’evento come un miracolo e ti predisponesti a riprendere a vivere insieme a lui, latore inaspettato di gioie, dalle quali avevi creduto d’esserti accomiatata per sempre. Unica ed inattesa occasione di resurrezione per te. E mentre tornavi al mondo per darlo alla luce, immaginavi la tua maternità e ti preparavi ad ospitarlo nella tua esistenza grama ed a lasciargliela trasformare. Niente sarebbe stato più come prima. Tutte le brutture che avevi attraversato finalmente trovavano uno scopo e presto sarebbero svanite. La pena pagata in anticipo sarebbe valsa il premio che, al termine della notte, avresti stretto tra le braccia.

La tua notte, invece, non ebbe fine. Il suo buio si condensò in un incubo che non prevedeva risveglio. Laio aveva consultato nuovamente l’oracolo, che aveva confermato il medesimo vaticinio: quel figlio sarebbe stato cagione per lui di morte e per te di dannazione. Meglio sarebbe stato non averlo, inevitabile ormai sopprimerlo. Versare il suo sangue era l’unico modo per salvaguardare il vostro. Così il parto ti provocò la disperazione più intensa. Tu non riuscivi ad odiare il tuo piccolo e non avresti esitato a dare la tua vita per la sua ed a consentirgli di ucciderti, se proprio non avesse potuto farne a meno, agevolandogli persino il compito. Mentre piangevi la sua vita e la tua, senza neanche interpellarti (e a che sarebbe valso?) il padre abietto affidava il tuo neonato ad un pastore perché gli procurasse la morte più indubitabile.

Nessun sollievo era previsto per te, solo il supplizio folle di dover restare al fianco del padre assassino di tuo figlio e non poter dimenticare la maledizione che velava ogni vostro giorno.

Tutto ha fine, anche la tortura. A tempo debito vivesti anche l’assurdo lutto che ti rese libera. Non gioivi certo per la tua vedovanza, ma cercavi ora, nella solitudine remissiva, una rassegnazione pacificante alla tua vita abortita, anelando almeno ad uno sterile riposo per il tuo cuore afflitto. E, quando giunse la pestilenza, confidasti a tuo fratello, con raccapricciante pacatezza, che le avresti dato il benvenuto, poiché forse lei sola avrebbe spezzato alfine le catene della tua punitiva permanenza nel mondo dei vivi e ti avrebbe regalato salvifiche ali per volare via.

Invece arrivò lui. Avrebbe potuto essere il tuo nuovo carnefice, giacché veniva a riscuotere il suo dono. Eppure si limitò a guardarti e seppe attendere che tu sollevassi gli occhi e li poggiassi su di lui. Giovane, fulvo, barbuto, possente e mansueto, prode e sapiente, con quella sua andatura claudicante che ti pungeva imprevedibilmente il cuore. Col tempo e la pazienza riuscì a conquistare la tua fiducia, a destare la tua passione ed a persuaderti al piacere. Fugò le tue paure, disciolse le tue riserve e ti svelò il sapore della felicità, affinché la gustassi pienamente. Per la prima volta ti sentisti amata e ti lasciasti inondare dal suo amore, così bello e giusto che non poteva proprio essere diversamente. Inebriata dalle sue parole e dalle sue carezze, splendevi radiosa e spargevi letizia ovunque intorno a te. Ogni momento sapeva di eterno ed era conferma e ricompensa per la lunga e tormentosa attesa che l’aveva preceduto. Lui risvegliò tutti i tuoi sogni e li portò a compimento, scovò la tua scorta di desideri e la esaurì. Valorizzò la tua volontà, esaltò ogni tua virtù, espresse i tuoi moti dell’animo, pronunciò le tue parole. Compose e completò il tuo essere. Ti condusse a toccare il cielo ed a raggiungere l’orizzonte. Non c’era nulla che tu volessi, perché ogni cosa era presso di te ancor prima che tu appurassi d’averne bisogno. T’indusse a riconoscere che si può essere molto più che felici, raggiungere uno stato di grazia indescrivibile, un’estasi per la quale non ci sono parole. Ti rese donna, madre, amante e moglie come mai prima di lui avevi potuto esserlo. Ti abituò alla perfezione e ti dedicò se stesso.

Sazia di tanta beatitudine, non eri protetta contro la caduta precipitosa che ti ha travolta. Non hai avuto modo di incassare il colpo, neanche la follia avrebbe potuto difenderti dalla prospettiva inammissibile dell’abominio.

Un amore incantevole come il vostro non può essere travisato, nessuna perversione può giungere a tanto. Vedo lo stupore straziante nei tuoi occhi, la tua bocca sembra una cicatrice avvizzita e non emette alcun suono da ore. Le tue guance sono di marmo. Le tue chiome ammantano le spalle rigide senza riuscire ad alleviare il gelo muto che ti pervade. Un solo pensiero ti attraversa la mente mentre, ritta come una statua, aspetti che prenda forma.

Si è oscurato il sole, come in una eclissi che non si risolve. Ora che tutto è nero, non c’è più modo né alcunché da vedere. Non accetti che s’infanghi il paradiso del tuo amore vero, puro ed unico. Non ammetti che una verità di fatto possa insozzarne un’altra, più autentica e profonda. Avevi colto il segno ma non lo avevi legittimato. Edipo non era stato tuo figlio e a te non avevano dato modo di essergli madre.

Non consentirai che te lo strappino ancora una volta dalle braccia. Rinunciare all’amore per lui e vederlo trasfigurare in orrore ti toglie il respiro. Soffoca la tua sventura ma preserva quello che pure è stato, e tanto celeste da spodestare gli dei.

Ora paga, Giocasta, col tuo collo questo amore tradito. Ma prima di andare, ti prego, se non vuoi esaudirmi e condurmi con te, voltami e poggiami sul tuo sedile. Fa che io resti ai tuoi piedi ma non debba riflettere la tua fine, cui volgo la schiena per fissare il nero che m’oscura. Quanto t’accade non si può guardare e nessuna voce forse riuscirà mai a levarsi per raccontarlo.

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