Nel Quartiere
di Feliciano Pipola
Mauro Bianchi, solo e senza un lavoro stabile – l’ultimo era stato come fresatore in un’officina alla periferia della città, prima di essere licenziato causa tagli al personale, almeno questa era stata la motivazione ufficiale – all’alba dei cinquanta si ritrovò a vivere al secondo piano di una palazzina di tre, in quella che un tempo era stata la casa della sua infanzia e della prima giovinezza. Senza una famiglia né il desiderio di farsene una, erano due le cose a cui teneva più di ogni altra: il calcio, o meglio, la squadra del Napoli e la pensione di invalidità della madre, ormai vecchia e malata, con cui condivideva l’appartamento.
Quando non era impegnato in qualche lavoretto saltuario, rimediato in un’officina o da un viso noto del quartiere, Mauro Bianchi trascorreva il suo tempo al centro scommesse sotto casa. Non aveva particolari aspettative riguardo le sue giornate. Dopo la controra trascorsa a sonnecchiare su una sdraio sul balcone di casa dietro le persiane, verso le sei infilava canottiera e pantofole, ficcava il giornale nella tasca posteriore dei bermuda di jeans lisi come la sua fronte bruciacchiata dal sole di metà luglio e scendeva a puntare quello che aveva. Spiegava su un tavolino il quotidiano alle pagine dello sport e, con un occhio al foglio ed uno ai monitor, buttava giù i suoi pronostici, tra un sorso e un altro di una birra e una scodella di arachidi. S’infilava in qualche discussione se l’argomento era il calcio o qualche altro sport, due colpi al biliardo se in un crocchio erano dispari per una partita regolare e poi birra, birra, birra. Birra fino a quando, alle undici di sera, ad offrirgliene una era Gaspare, il gestore del locale, non prima però di avergli strappato la promessa di andarsene via e consentirgli così di passare lo straccio e tirare giù la saracinesca. Mauro, allora, sul marciapiede, tirava via la linguetta dalla lattina e iniziava a tracannare, un po’ in bocca un po’ sul mento e la barba e caracollava verso il portone di casa. Saliva a tentoni le scale, girava la chiavi nella serratura ed infilava il corridoio. Asciugava la bava intorno alla bocca della madre se era ancora immobile sulla poltrona con gli occhi fissi davanti alla televisione oppure, se era andata già a letto, si stravaccava sulla sdraio fuori al balcone e prendeva a fumare. Ed era lì che si addormentava se la sbornia era troppo forte per farlo rialzare e andarsene a letto.
Un pomeriggio, uno dei tanti di quell’estate torrida, dove i giorni erano uno uguale all’altro come i casermoni tutti in fila delle case popolari, Mauro Bianchi era disteso sulla sua sdraio sul balcone. In bocca una sigaretta sempre accesa ed in televisione la cronaca appassionata di una tappa del Tour de France. Era riuscito quasi ad appisolarsi, quando, dal piano superiore, udì sottile il tintinnio delle corde del bucato. Si ridestò piano, aprì gli occhi e volse lo sguardo all’insù. Due braccia sottili tese ad allungare e stringere in una molletta i panni gocciolanti. L’uomo accostò il capo alla persiana. I capelli tenuti insieme da una matita e due tette, poggiate sulla ringhiera del balcone che sembravano esplodere sotto la canottiera a pois. In bocca una sigaretta appena accesa e sul viso l’aria di chi ha fretta di essere grande. Era Paola, la figlia di Gianna, l’inquilina del piano di sopra. Mauro aveva preso ad osservarla per tutta l’estate da quando, una sera di fine primavera, l’aveva vista entrare al centro scommesse sottocasa tutta imbellettata, tacco dodici e attraversare la sala, comprare un pacchetto di sigarette e avviarsi all’uscita, sotto lo sguardo indiscreto dei maschi presenti.
«Tutta sua madre!» aveva borbottato qualcuno, ricordando la somiglianza con Gianna quando aveva la sua stessa età. Tredici, forse quattordici anni.
«Tutta sua madre, altroché!» aveva risposto qualcun altro. « L’altra sera, svoltando l’angolo, l’ho vista infilare i gettoni nel distributore della farmacia. Poi è risalita dietro uno scooter e chi s’è visto s’è visto!» accompagnando con un fischio un gesto ripetuto della mano. Mauro, chino al suo posto, aveva osservato per intero quella scena ed era rimasto a bocca aperta. Quelle parole gli si erano impresse nella mente. Non riusciva a pensare ad altro quando gli capitava di scorgere quella ragazzina in strada o quando la incrociava per le scale.
Ora se ne stava disteso e la guardava mentre era assorta nelle sue cose, dal basso verso l’altro. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Quella canottiera, quel pantaloncino corto, quelle gambe sottili. Il profumo di creme ed oli solari nell’arsura di quel pomeriggio lo facevano impazzire. Mauro prese a toccarsi. Non riusciva a smettere. L’immagine di quella ragazzina gli procurava un piacere intenso, incontrollabile. Gli sembrava che gli stesse ammiccando:
«Cosa fai? Che aspetti a salire su?»
Lo divorava ancor di più la fantasia che magari, anzi, sicuramente, sbirciando tra le corde del bucato, lei lo avesse visto e, invece di andare via, fosse rimasta lì, sorniona, a godere dello spettacolo di un uomo in preda al piacere.
«Ma sì, sì. Deve essere così!» pensò tra sé e sé, figurandosi ora gli sguardi di approvazione dei tipi del centro scommesse. Dopo qualche minuto, la ragazzina fece scolare la bacinella dabbasso, raccolse i panni asciutti e rientrò in casa. Mauro si fermò. Pose le mani dietro la testa e chiuse gli occhi, provando ad inspirare ed espirare profondamente, convinto che servisse a disperdere la carica intensa che aveva dentro. Lo distrasse per un istante la voce della telecronaca, un urlo per lo scatto sul Mont Ventoux della maglia gialla. Durò poco. Dopo un po’ gli ritornò in mente quel corpo abbronzato. Sebbene provasse a distrarsi, non c’era verso di pensare ad altro. Lo divorava l’idea che fosse proprio lì, sopra, nel silenzio di quelle quattro mura. La immaginava ora seduta sulla tazza del water, con le mutandine abbassate e intenta a toccarsi. Oppure a letto, completamente nuda, pronta a giocare con qualsiasi oggetto che avesse a portata di mano. Magari con lei c’era anche sua madre. Sicuro! E di certo lo facevano insieme.
Mauro si alzò dalla sdraio, attraversò scalzo la cucina, infilò il corridoio, socchiuse la porta del bagno, si poggiò alla lavatrice e prese a masturbarsi. Quella ragazzina l’aveva trascinato fino a quel punto ed ora gli svuotava via tutto il suo piacere.Venne in un attimo. Riprese fiato qualche minuto e si lavò. Tirò lo scarico e uscì dal bagno, asciugandosi la fronte imperlata di sudore. In cucina ripulì la bava dalla bocca della madre, poi aprì il frigo e prese una lattina di birra fredda, la aprì e tornò a stravaccarsi di nuovo sulla sdraio, più leggero e rilassato che mai. Prese a sorseggiare, mentre il gruppo iniziava l’ultima salita prima del traguardo.
Verso le sei si ridestò dal sonno. Infilò canottiera e bermuda, mise il giornale sotto braccio e scese al centro scommesse sotto casa. Prese a sedere al posto di sempre e a sbirciare le quote e a segnare le giocate. Ingollò l’ultimo goccio di birra, quando Gaspare gli promise di offrirgliene una se gli avesse fatto la cortesia di andargli a ritirare un pacco all’ufficio postale all’angolo. Con un cenno del capo diede ad intendere che non c’era alcun problema. Prese dal bancone il cedolino ed uscì, avviandosi in fondo alla strada. Aveva quasi raggiunto l’incrocio, quando, con la coda dell’occhio, vide Paola attraversare e proseguire lungo il suo stesso marciapiede. L’uomo prese a squadrarla dalla testa ai piedi. Indossava un top nero con un grande cuore rosso stampato dinanzi e un pinocchietto bianco. Due sandali con la zeppa e appena sopra la caviglia sinistra una mela morsicata come tatuaggio. Mentre la guardava sculettare davanti a sé gli sembrò indovinare la striscia del tanga in rilievo.
D’improvviso sentì che gli veniva duro in un secondo. Quel sedere, quelle gambe, la leggera scia di profumo nell’aria era come se gli suggerissero di seguirla. Si sentiva come a guinzaglio, portato a spasso in lungo e in largo, senza scelta e senza meta. Provò a pensare a qualcos’altro, a distrarsi provando a ricordare l’ordine delle puntate fatte quel pomeriggio. Niente da fare. Era come se gli si fosse solidificato. Se avesse potuto, lo avrebbe tirato fuori strada facendo. Gli tornarono in mente gli apprezzamenti che aveva sentito qualche tempo prima alla sala scommesse. Gesti e sguardi rimbombavano nella sua testa come un ritornello senza fine, mentre la guardava ancheggiare decisa, proprio come fanno le modelle in televisione.
La ragazzina attraversò le strisce superando l’incrocio e proseguì lungo il marciapiede opposto. Mauro si lasciò alle spalle l’ufficio postale, attraversò anch’egli il crocevia e prese a seguirla.
«Dove diavolo sta andando?» si domandò, alle sue spalle, a non più di una decina di metri. Non smise di chiederselo che Paola, d’un tratto, infilò un sentiero sulla destra e proseguì, tagliando per quelli che un tempo erano i giardinetti pubblici ed ora il passaggio più veloce per arrivare alla stazione. Aveva quasi raggiunto gli scalini del soprapassaggio, quando, un rumore di passi improvviso, la fece voltare di scatto:
«Ah! È lei, signore!» sospirando mentre sul suo viso si distendeva piano un sorriso. Mauro ricambiò, con sguardo affabile. Poi le si avvicinò e la afferrò. La ragazzina diede un urlo improvviso, acuto. L’uomo la sollevò e la trascinò dietro le scale e imboccò un vecchio sottopassaggio ormai dismesso. Paola aveva preso a scalciare e con un gomito aveva colpito allo zigomo Mauro. Si divincolò e prese a correre lungo il sottopassaggio, raggiunse senza voltarsi il fondo e imboccò il corridoio sulla destra, quando, dinanzi a sé, un muro. L’uomo andò braccia aperte vero di lei, muovendosi verso destra e poi verso sinistra, fino a quando la ragazzina, immobile, non fu all’angolo.
«Cosa vuole da me?» balbettando con gli occhi fuori dalle orbite e urlando senza tregua.
Mauro non l’ascoltava. Le mise una mano al collo e le strinse la faccia all’angolo. Paola riprese ad dimenarsi. L’uomo con una mano le strinse forte i capelli e con l’altra tirò giù prima i pantaloni e poi le mutandine mentre nel pianto la ragazzina implorò biascicando di fermarsi. Mauro prese a baciare il collo tra le smorfie svenevoli della ragazzina. Poi tirò fuori il suo pene e, risoluto, glielo mise dentro. Paola cacciò un urlo, socchiuse gli occhi e svenne.
Quella furia selvaggia si arrestò soltanto quando venne. Ansimante e con lo sguardo basso, mise a sedere la ragazzina che lo fissava con un’espressione assente. Con il dorso della mano si asciugò la fronte sudata e fece per un po’ avanti e indietro nella penombra. Poi raggiunse l’angolo opposto e prese a urinare. Infilò la canottiera nei bermuda, tirò su la chiusura lampo e uscì. Raggiunse il sentiero, lo percorse e riprese i suoi passi. Attese il verde e attraversò l’incrocio e quando fu sul marciapiede opposto entrò nell’ufficio postale. Ritirò il pacco di Gaspare e fece ritorno. Infilò la porta del centro scommesse e si diresse al bancone.
«Grazie mille, amico mio!» sorrise Gaspare, prendendo il pacco e versando una birra in un bicchiere.
Mauro prese a sorseggiarla e quando l’ebbe finita, spense la cicca nel posacenere e uscì. Infilò il portone di casa, fece le scale, pescò le chiavi dalla tasca dei bermuda ed entrò. Una lattina di birra dal frigo e prese a sedere accanto al tavolino sul balcone.
Dinanzi a sé il profilo dei palazzi intorno, le finestre aperte, i panni stesi, la corsa dei bambini intorno ad un pallone e la musica a tutto volume di un’auto in corsa. L’uomo tracannò d’un fiato l’ultimo sorso, mentre una lacrima scendeva piano e gli rigava il volto. Si alzò e aprì la porta di casa. Ripercorse il corridoio e andò nella camera della madre. Le asciugò la bava agli angoli della bocca e gettò il fazzoletto nel cestino. Rifece il corridoio, tornò in cucina e uscì sul balcone, poggiò i gomiti alla ringhiera e tolse le scarpe.
In fondo alla strada le sirene di due auto della polizia, i primi volti alla finestra, qualcuno sulle scale del barbiere, altri fuori alla pescheria. Un vociare sempre più insistente poi un urlo di una madre, lo sguardo dei curiosi, i tipi del centro scommesse, la folla sui marciapiedi.
Mauro Bianchi era fermo lì, sguardo fisso, occhi aperti, col giornale sempre in tasca ed un viso senza lacrime ma con in bocca il sangue. Dello stesso colore, dello stesso sapore di quello scorto quel pomeriggio tra le gambe di Paola.