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“RUMORE BIANCO” DI EMANUELA GUARNIERI

Rumore bianco
di Emanuela Guarnieri

Signor giudice, mi dichiaro colpevole. Non badi a questi capelli arruffati e a questa pelle incollata di sabbia. Sono un naufrago della vita. E sa signor giudice? Ne sono orgoglioso. Perchè sono orgoglioso del mio fallimento mi chiede? Perchè naufraga solo chi ha il coraggio di imbarcarsi, è ovvio.

Cominciamo dal principio. Sono trascorsi ormai 50 anni: quel novembre c’era la neve, e io venivo al mondo. Quando mia madre incrociò i miei occhi, avvolto in uno straccio, pianse, e non di gioia, ma di tristezza. Io me lo ricordo. Non perchè potessi averne memoria, ma perchè quella tristezza l’ho sentita nella carne per tutta la vita. All’alba di quell’inaspettato novembre congelato, mia madre si era resa conto che di quella felicità potenziale che gli avevano poggiato in braccio, ovvero del sottoscritto, lei non sapeva che farsene, perchè non aveva con chi condividerla. La donna che mi ha generato, era anche lei una naufraga della vita.

Odio la musica. Le note mi sembrano la peggiore tortura per l’orecchio umano. Ti fanno saltellare il cuore su un pentagramma di emozioni, e devi stare lì a fare l’equilibrista su quelle linee nere che sembrano i fili di metallo dove si stende il bucato: troppe volte ho sognato di essere seduto nel vuoto a centinaia di metri, poggiato su quei dannati fili instabili come instabile è la vita. Mi svegliavo ogni volta che ero sul punto di spappolarmi al suolo, maledizione. E quelle maledette percussioni, che ti sconquassano lo stomaco: altro che ritmo signor giudice, peggio delle percussioni ci sono solo le ripercussioni, e mi scusi il gioco di parole. Che poi lo sa signor giudice? L’eco e le ripercussioni sono praticamente la stessa cosa: una merda che si propaga e si riflette e ti domanda e ti risponde, tutta la vita, per tutta la vita, Che hai voglia a non voler ricordare, ma una volta che hai urlato vaffanculo nel Gran Canyon, la vita per sempre ti rimanda a fanculo.

Amo invece l’assenza di periodicità, l’identità delle frequenze, il fruscio eterno e senza senso del piattume. Perchè per chi ama imbarcarsi nella vita come me, le emozioni sono solo un intralcio. Prima o poi le emozioni piu belle lasciano spazio alla paura e la paura, eccellenza, ti fa abbandonare la nave prima ancora che il naufragio avvenga, e chi lo dice poi, che il naufragio sia così certo?

Quando ero bambino era Marilu, mia nonna, a canticchiarmi la ninna nanna. Mia madre se ne stava lì con quello sguardo freddo come la neve di quando sono nato, e non ricordo di aver mai ricevuto una sua carezza. L’unica melodia che mi sono concesso nella vita proveniva da quella vocina dolce di quella donna in scialle candido, l’unica persona dalla quale io mi sia sentito incondizionatamente amato. Da quando una notte di tanti anni fa Marilu non ha piu aperto gli occhi, la mia unica consolazione sono stati i fruscii continui. Li chiamano “rumori bianchi”. Non ne ha mai sentito parlare? Si tratta della somma di tutti i suoni. E’ un’addizione, proprio come l’addizione di tutti i colori che generò il bianco di quando mia madre mi ha sputato al mondo. Ci pensa signor giudice? Io sono fatto di tutti i suoni e tutti i colori esistenti al mondo, eppure non potete sentirli, nè potete vederli: sono come un foglio bianco dove nessuno legge nulla, sono come uno strumento musicale che non produce alcuna variazione di suono. Insomma, sono tutto e sono niente. Mi scusi, però, non mi interrompa. Le stavo raccontando di quanto tempo passassi ad ascoltare la monotonia del suono: il rubinetto del lavandino aperto sempre con la stessa pressione, il phon acceso anche quando non c’era alcuna necessità, il treno sulle rotaie, il sottofondo continuo ad alta quota in un aereo, l’aspirapolvere, il ventilatore e l’eterno e incessante girare delle sue pale. La monotonia della vita e l’incessante girare delle mie, di palle. Mi scusi, mi è scappato. Ma il rumore bianco può essere anche naturale, anche se lo gradisco meno: la pioggia, le onde del mare, lo scoppiettare del fuoco. Queste cose qui però fanno brutti scherzi: può cominciare a piovere piu forte e puo iniziare a crearsi un ritmo sulle cose, può alzarsi il mare e si possono creare suoni diversi se l’acqua incontra gli scogli, il fuoco poi, può avvolgere le case e mischiarsi ai suoni delle urla. No, no. Meglio il rumore gestibile.

Immaginate la mia felicità, signor giudice, quando, a vent’anni, scoprì la UVB-76. E non mi guardi così curioso signor giudice, ora le spiego, sia paziente. Una stazione radio russa, frequenza 4,625 kHz, la annoti signor giudice la annoti, le consiglio vivamente l’ascolto. Da oltre 40 anni, le dicevo, questa meravigliosa stazione radio russa trasmette un breve e monotono ronzio 25 volte al minuto e pare che in talune occasioni, questo segnale monotono si sia interrotto per lasciare spazio a degli indecifrabili e brevissimi messaggi in lingua russa. Parole, parole insensate e improvvise nel bel mezzo di un eterno brusio. Non le sembra una perfetta metafora della vita, signor giudice? In tanti giurano di aver avuto questa fortuna: qualcuno ha sentito parole in lingua russa come atollo, biliardo, balcone, addirittura, indicazioni in puro stile spionaggio. Da trent’anni, vivevo per ascoltare una volta, anche una volta sola, l’interruzione di quel fruscio apparentemente eterno, il collasso della frequenza, la possibilità di naufragio che esiste anche nel rumore bianco. La settimana scorsa è successo, signor giudice. Stavano dicendo qualcosa! Dovevo registrarlo subito, dovevo capire. Ho cominciato ad agitarmi e ad aprire freneticamente i cassetti della mia scrivania in legno grezzo alla ricerca del registratore. Nel frattempo sentivo le voci, signor giudice, dovevo fare in fretta, non sapevo quanto sarebbe durato quel momento atteso da una vita! Proprio appena ero in procinto di schiacciare il tasto rec, però, dalla stanza da bagno, è arrivata un’altra maledetta voce, quella di mia madre. In quello stesso momento, la radio ha ripreso il suo brusio continuo, le voci non c’erano piu. La maledetta, ormai vecchia e decrepita, con gli occhi ancora piu tristi di quando mi ha messo al mondo, urlava contro di me. Si signor giudice, dalla stanza da bagno, mentre Irina, ha presente signor giudice, quella grassa e pallida badante polacca che prima ho visto seduta qui tra le panche. Ah eccola lì, ciao Irina! Mi scusi, dicevo. Mentre Irina le insaponava quella schifosa e inarcata schiena rugosa, mia madre ha ben pensato di ribellarsi: “basta, basta con questi fruscii, sparisci dalla mia vista, dai pace alle mie orecchie, bastardo, muori, che non so neanche perchè sei nato!”. Ha rovinato tutto signor giudice, capisce? Era arrivato il momento, quel momento. E la vecchia ha distrutto così anni di monotona e pazientissima attesa. Gliel’avevo detto no signor giudice? Le emozioni sono pericolose, specie quelle primordiali, come la rabbia. Ho sentito subito una contrazione al centro della fronte, l’incontrarsi aggressivo delle arcate dentali, il cuore fuori dal petto, l’aumento della sudorazione, una sensazione incendiaria di calore alle tempie. Potevo calmarmi solo con il mio rumore bianco preferito, mi capisca. Con la prolunga, sono riuscito agevolmente a lanciarlo nella vasca da bagno. Sembrava una nave affondata da un fulmine nel bel mezzo di una tempesta, il mio amato phon. Unica vittima del naufragio: mia madre. Mi sembra di aver visto una luce bianchissma, somma di tutti i colori, come quella bianchissima notte di novembre di cinquant’anni fa in cui sono venuto al mondo. E ora mi condanni pure signor giudice, ma la prego, non mi lasci senza phon.

“Sole nero” di Mariarosaria Paesano

Sole Nero
di Mariarosaria Paesano

Ti guardo, Giocasta, e non ti riconosco. Tu, così fiera ed altèra. Scolpita nella tua bellezza senza pecche, perfetta, appagata e felice per il mondo e per te stessa fino a poche ore fa e ora improvvisamente svanita. Il bistro disciolto intorno agli occhi di brace e catrame forma pozze nere, listando a lutto il tuo volto. Sei esanime anzitempo, mi costringi al turbamento. Sebbene io non possa incresparmi lo farei, magari fossi d’acqua!, pur di sottrarmi all’orrore del vuoto che mi costringi a riflettere d’ora in avanti. Portami con te, che io rovini e m’infranga quando spegnerai la vita. Nessun’altra immagine mi attraversi, lascia che io appartenga a te sola ed immoli la mia immortalità di povera cosa alla fedeltà ben più ambita ai tuoi sguardi regali.

Nascesti regina, e non solo per stirpe, né per le nozze che ti toccarono in sorte. Non so se anche semidea, tuttavia c’era qualcosa in te che ti rendeva unica, ultraterrena. Tu rapivi, catturavi, ammaliavi. Avrei voluto udire il tuo primo vagito, nell’istante in cui il sole ti tenne a battesimo, sfiorarti con la più delicata delle carezze, raccogliere il tuo respiro originario, ma non ero ancora accanto a te. Non ho colto i tuoi primi passi né le tue prime parole. Nessuno può esserci sempre, lo so, tu sola non ti sei abbandonata mai.

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“Ti amo più di sempre” di Gaetano Nocerino

Ti amo più di sempre
di Gaetano Nocerino


Come fate a viv­ere al buio? A nutrirvi, ad accoppiarvi, a trascorrere i vostri giorni senza poter mai vedere la luce del Sole?”

Erano queste le domande che Emanuela ripeteva di continuo, senza che mai nessun commensale – era così che piaceva definirli – si degnasse di rispondere, magari distaccandosi un istante dalla voracità che esibiva continuamente. Ripeteva queste domande come fossero parte di una cantilena muta, oramai senza aspettarsi reazione. Le piaceva però immaginare che la propria voce potesse ancora rimbalzare sulle pareti di legno che la circondavano.

Ad un tratto, tra miliardi di accaniti divoratori di carne e in un ronzio assordante come di mosche impazzite che sbattono contro i vetri delle finestre, a Emanuela parve di percepire una risposta.

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“Nel Quartiere” di Feliciano Pipola

Nel Quartiere
di Feliciano Pipola


Mauro Bianchi, solo e senza un lavoro stabile – l’ultimo era stato come fresatore in un’officina alla periferia della città, prima di essere licenziato causa tagli al personale, almeno questa era stata la motivazione ufficiale – all’alba dei cinquanta si ritrovò a vivere al secondo piano di una palazzina di tre, in quella che un tempo era stata la casa della sua infanzia e della prima giovinezza. Senza una famiglia né il desiderio di farsene una, erano due le cose a cui teneva più di ogni altra: il calcio, o meglio, la squadra del Napoli e la pensione di invalidità della madre, ormai vecchia e malata, con cui condivideva l’appartamento.

Quando non era impegnato in qualche lavoretto saltuario, rimediato in un’officina o da un viso noto del quartiere, Mauro Bianchi trascorreva il suo tempo al centro scommesse sotto casa. Non aveva particolari aspettative riguardo le sue giornate. Dopo la controra trascorsa a sonnecchiare su una sdraio sul balcone di casa dietro le persiane, verso le sei infilava canottiera e pantofole, ficcava il giornale nella tasca posteriore dei bermuda di jeans lisi come la sua fronte bruciacchiata dal sole di metà luglio e scendeva a puntare quello che aveva. Spiegava su un tavolino il quotidiano alle pagine dello sport e, con un occhio al foglio ed uno ai monitor, buttava giù i suoi pronostici, tra un sorso e un altro di una birra e una scodella di arachidi. S’infilava in qualche discussione se l’argomento era il calcio o qualche altro sport, due colpi al biliardo se in un crocchio erano dispari per una partita regolare e poi birra, birra, birra. Birra fino a quando, alle undici di sera, ad offrirgliene una era Gaspare, il gestore del locale, non prima però di avergli strappato la promessa di andarsene via e consentirgli così di passare lo straccio e tirare giù la saracinesca. Mauro, allora, sul marciapiede, tirava via la linguetta dalla lattina e iniziava a tracannare, un po’ in bocca un po’ sul mento e la barba e caracollava verso il portone di casa. Saliva a tentoni le scale, girava la chiavi nella serratura ed infilava il corridoio. Asciugava la bava intorno alla bocca della madre se era ancora immobile sulla poltrona con gli occhi fissi davanti alla televisione oppure, se era andata già a letto, si stravaccava sulla sdraio fuori al balcone e prendeva a fumare. Ed era lì che si addormentava se la sbornia era troppo forte per farlo rialzare e andarsene a letto.

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“Pulex” di Guido Donatone

Pulex
di Guido Donatone


Mi chiamo Pulex. Sono piccina, molto piccina. Una volta per vedermi in uno specchio ho dovuto fare un salto piuttosto pericoloso. Troppo in alto per me, che pure salto bene, a fianco del letto del mio uomo. Vivo di solito nel cespuglio dell’inguine di un uomo che non ho nemmeno scelto. Lui mi ospita senza saperlo e cerco di dargli nessun fastidio. Succhio il suo dolce sangue solo in caso di estrema necessità: rischierei di beccarmi un’unghiata feroce. Preferisco nutrirmi altrove. Glielo devo in cambio del gradevole caldo riposante rifugio che mi offre. Devo guardarmi dal girovagare specie sulla sua schiena: ha comprato nel bazar di Istanbul una lunga maledetta mano grattante che gli arreca piacere, ma a me mi fotte. Non ci tengo affatto a farmi vedere. Quella volta del salto alto rimasi delusa –  meno male,  fu fuggevole – del mio aspetto. Sono fatta così. Inutile perdere  tempo a biasimarmi.

Sono di natura femminile, ma non capricciosa come le donne. Mi accontento. Sono accomodante  se bene accomodata. Tornando al mio uomo sono alquanto soddisfatta: è  giovane e di gentile aspetto, l’odore del suo corpo è gradevole. Una volta mi è frullato nella testa di saltare dall’inguine al più grato tepore dei testicoli. Mal me ne incolse. Lui chiama tutti coglioni, ma i suoi li tiene in grande conto. Li gratta  sovente, poi ho scoperto che non ce l’aveva con me: incontrava persone sgradevoli. Sono tornata , come vuole il proverbio, alla vecchia via. Lui sorride quando si guarda nello specchio, e lo fa spesso, ma per mirarsi il mio uomo non ha  bisogno di saltare. Salta solo sulla motocicletta.  

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“Ufo” di Maurizio Buonfantino

Ufo
di Maurizio Buonfantino


Sulla spiaggia di Vindicio è apparso ieri uno strano coso. Sulle prime sembrava un cartone animato gemello di Supermario Bros, ma i bambini, eccitatissimi, che per primi lo hanno avvicinato, sono tornati piangenti dalle mamme riferendo che quel coso non voleva giocare con nessuno se non a Trottola. Poi si è avvicinato Giocasta, noto cineasta dei tubi di Formia, che ha riferito di averlo visto interpretare nel film “Tempi moderni” con Charlie Chaplin il ruolo di un frantoio elettrico.

Ma John, noto musicofilo scaurese, ha asserito, con una sicurezza invidiabile , che quel coso è stato di sicuro lo spunto per la nascita di una canzone di successo degli anni novanta interpretata da Mietta: Trottolino Amoroso.

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“Il frigorifero” di Daniela Garofalo

Il frigorifero
di Daniela Garofalo


Finalmente era lì in tutto il suo splendore, a far bella mostra di sé. Rosso fiammante, campeggiava al centro di quella cucina vecchia e malandata oscurando tutto il resto, mobili ingialliti, fornelli incrostati dal grasso e dal tempo, rubinetti opacizzati dal calcare. Accerchiato da uno squallore ostinato il frigorifero nuovo sovrastava come una primadonna avvezza ad attorniarsi di ballerine goffe e sgraziate affinchè il suo fascino potesse risplendere indiscusso. Era il frigorifero bombato che aveva scelto di acquistare malgrado il prezzo e che rappresentava il suo piccolo riscatto per esorcizzare la sconfitta. La sconfitta di non riuscire a mantenersi da sola con il suo lavoro, la sconfitta di non avere un nido.

Adele ritornava nell’abitazione familiare e per fortuna, avrebbe detto qualcuno, aveva ancora un tetto sulla testa. Si era trasferita lì per viverci da sola, dopo una relazione tormentata finita quando le energie le erano venute meno. I genitori erano morti e il fratello non voleva venderla quella casa per niente amata. Le aveva chiesto di aspettare:

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