“Ti amo più di sempre” di Gaetano Nocerino

Ti amo più di sempre
di Gaetano Nocerino


Come fate a viv­ere al buio? A nutrirvi, ad accoppiarvi, a trascorrere i vostri giorni senza poter mai vedere la luce del Sole?”

Erano queste le domande che Emanuela ripeteva di continuo, senza che mai nessun commensale – era così che piaceva definirli – si degnasse di rispondere, magari distaccandosi un istante dalla voracità che esibiva continuamente. Ripeteva queste domande come fossero parte di una cantilena muta, oramai senza aspettarsi reazione. Le piaceva però immaginare che la propria voce potesse ancora rimbalzare sulle pareti di legno che la circondavano.

Ad un tratto, tra miliardi di accaniti divoratori di carne e in un ronzio assordante come di mosche impazzite che sbattono contro i vetri delle finestre, a Emanuela parve di percepire una risposta.

“Che cos’è il Sole?”

Dubitava dei propri sensi, ridotti a ricordo. Attese qualche istante difficile da quantificare, giacché anche il tempo aveva perso la connotazione di una volta. Poi, chiese: “Chi parla?”.

Dopo giusto qualche attimo, la risposta.

“Noi siamo guidati dagli odori. Solo i più fortunati vedono la luce. Io non sono mai stato fuori; com’è?”

“Chi sta parlando?” rispose Emanuela, turbata e al contempo emozionata.

“Mi chiamo Uormino”, fece una voce praticamente impercettibile.

“Ma allora mi sentite?”

“Ma che domanda è! Se ti rispondo è logico che ti sentiamo, no?

“E’ che sono mesi e mesi che tento di parlarvi. Ma la vostra ingordigia è maledettamente esagerata.”

“I miei fratelli non hanno il gusto per la bellezza. Non sanno apprezzare l’assaggio lento ed elegante. Consumano e basta, senza soffermarsi su ogni pezzettino di carne, per ammirarne la fattura, l’odore, la morfologia e la storia.”

Emanuela parve interessata, “a te, invece, cosa ti piace di me?”

Uormino si imbarazzò per la domanda. Lui veramente si era soffermato in ogni angolino del corpo di Emanuela, godendone del sapore e inebriandosi del suo profumo. Si era nutrito dei suoi tessuti con ardore; il morso poggiava sulle sue carni come il bacio sulle labbra della propria amata.
“Tutto mi piace di te”, confessò in un sol colpo.

“Ma fatti vedere? Dove sei?”

“Sono nel tuo torace, praticamente dove ti batteva il cuore. Doveva essere un cuore bellissimo. Mi sarebbe piaciuto ascoltarne il battito. Chissà per quanti cuori ha trepidato”.

“Per Antonio. Unico compagno di vita.”

L’assordante brusio dei vermetti necrofagi si riappropriò della camera di legno che ospitava Emanuela. Ormai le avevano consumato le interiora, gli organi interni erano del tutto scomparsi. Sebbene malconci, rimanevano ancora i nervi più robusti, le cartilagini, le osse e lembi di pelle. Quest’ultima era a tratti marcia e decadente, soprattutto nella zona della pancia, dove s’erano formati dei passaggi che i vermetti adoperavano per entrare ed uscire dal corpo.

Come api operaie intente a costruire l’alveare, ogni vermetto guardava quello che lo precedeva, intento a nutrirsi e a consumare nel più breve tempo possibile; nessuno si preoccupava di altro. La bara era piena di vermetti brulicanti che adornavano tutt’attorno il corpo di Emanuela, come fossero un’enorme aureola pullulante.

Uormino fu il solo che alzò gli occhi verso il viso della donna. Era sempre stato il più strano di tutti. Quello lento, che non badava agli aspetti essenziali della vita di un vermetto necrofago. Quello al quale se gli si fosse detto “guarda! una farfalla morta!”, avrebbe alzato lo sguardo, invece che rivolgerlo in terra.

Emanuela e Uormino divennero ottimi amici. Ciascuno era diventato il confessore dell’altro; ciascuno con le proprie esperienze e le peculiari sensibilità.

Un giorno, un gran colpo percosse la bara, facendo risuonare un tonfo che si amplificò tra le pareti di legno. Il ronzio di fondo dei vermetti s’arrestò, per il dispiacere di Emanuela, ormai abituata alla loro compagnia.

Al tonfo ne seguirono altri, meno intensi. Ad ogni colpo la bara veniva inclinata da un lato e poi dall’altro, come fosse una barca in balia di acque agitate.

“Che succede?” chiese spaventato Uormino.

“Mi staranno riesumando! Mi poseranno nella nicchia di famiglia” rispose Emanuela, con voce piena d’emozione.

“Che significa?”

Incurante della domanda, Emanuela si fece percorrere da una scossa di emozione: “Vedrò Antonio! Sicuramente sarà venuto anche lui ad accompagnami in quest’ultimo viaggio”.

Ebbe come un sussulto: “Come mi vedrà?! Marcia! Deforme! Lui sarà bellissimo! Io il mostro di un ricordo! Antonio è bello come il Sole d’inverno! Io la fredda maceria di un relitto!”

Le parole non riuscivano a seguire il tumulto di emozioni che la abitavano: oscura sovrapposizione di gioia e timore. Uormino se ne stava sul mento osseo a osservare la cascata di sensazioni che investiva la sua amica. “Ma com’è il Sole?” le chiese.

Fu ignorato.

“Ti amo più di sempre”, disse Emanuela, pensando al suo Antonio e concludendo la sequenza di esclamativi con la ‘loro’ frase d’amore. Cadde in una inquieta malinconia.

“Che posso fare?” le chiese Uormino, vivendo appieno la profonda tristezza nella quale era caduta la sua amica.

Emanuela rimase impassibile. Restavano solo le oscillazioni della bara, che oramai era stata del tutto estratta dal fosso.

“Ci penso io!” fece Uormino che, risoluto come non s’era mai visto, prese a risalire la guancia di Emanuela. E cominciò a rilasciarle una traccia di bava sul viso.

Nel mentre, da un piccolo foro all’estremità opposta della bara, entrò una luce violenta che inondò la cassa, risuonando al suo interno come fosse una potente onda sonora. Storditi da tanto fulgore, i pochi vermetti rimasti si ritrassero immediatamente nelle cavità corporali di Emanuela. L’unico che ne rimase esposto fu Uormino, intento a terminare l’opera che aveva in mente.

“Uormino guarda! E’ proprio come il Sole!” gridò Emanuela, rivolgendosi al foro luminoso dal quale penetrava la luce.

Il vermetto continuava a rigare il viso osseo dell’amica, ma la luce lo aveva quasi completamente stordito. Pochi altri segni e avrebbe finito.

Ad un tratto, un rumore secco, un risucchio, una folata d’aria fresca nella gabbia stagnante, e il coperchio della bara venne aperto del tutto. La luce finì per riempirne l’interno come fosse un liquido luminescente capace di colmare ogni anfratto e increspatura del legno. Uormino alzò il capo e guardò finalmente in faccia la luce che aveva sempre desiderato vedere, sapendo che non sarebbe stato in grado di reggerla. S’accese di emozione. Finì cotto per l’incapacità del suo corpo di proteggersi dai raggi di luce.

Nella bara s’affacciarono gli addetti alla riesumazione. Alle loro spalle c’era un vecchietto, dall’aspetto mite e dagli occhi pieni di calore.

Emanuela lo fissava con profondo amore. Osservò il cambio d’espressione che ebbe Antonio nel leggerle in viso la frase che aveva tracciato Uormino: Ti amo più di sempre.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *